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RICONCILIAZIONE E PERDONO, LE FORME PIÙ ALTE DI RIFERIMENTO

Pubblicato il 19/06/2025

Due opposte vicende ci interrogano sul modo in cui elaboriamo le ferrite della vita e il male che ci minaccia. 

Cari amici lettori, un liceo di Graz è diventata l’ambientazione di un tragico eccidio: Artur A., un giovane ventunenne, fa irruzione nella scuola superiore che aveva frequentato anni prima, e con una pistola e un fucile da caccia uccide 10 studenti, per poi togliersi lui stesso la vita. Da quanto emerso finora, sembra che il giovane fosse stato vittima di bullismo in quella scuola. Il gesto efferato sarebbe dunque una sorta di vendetta, di “rivalsa” simbolica del male subito quando era allievo in quella stessa scuola.
La vicenda fa riflettere, oltre che per la sua violenza omicida e il “facile” porto d’armi, per un aspetto umano ed educativo che non ci può sfuggire: le fragilità non accompagnate, le ferite interiori non curate, il disagio lasciato a se stesso, il male subito senza avere la possibilità di rielaborarlo e in qualche modo di uscirne, ritornano e si trasformano in odio, desiderio cieco di vendetta, violenza che arriva all’omicidio. Artur era introverso, non era sui social, aveva abbandonato la scuola, aveva iniziato un apprendistato. Sorgono tante domande: il ragazzo aveva manifestato a qualcuno di essere stato vittima di bullismo? Nessun occhio attento aveva captato dei segnali di disagio? La vicenda troverà i suoi chiarimenti, ma essa mostra come una mancata “ricomposizione” interiore di un vissuto di sofferenza può portare a esiti distruttivi e autodistruttivi. Dove manca questa luce di perdono, di riconciliazione con la propria storia, non può che prosperare un vissuto di sofferenza, probabilmente acuita dalla fragilità interiore propria dell’età giovane.
Una luce che invece c’è nella storia straziante della pediatra di Gaza, mamma di 10 figli, 9 dei quali, insieme al marito, sono morti sotto i bombardamenti israeliani. Perdere i figli messi al mondo è forse il dolore più inguaribile che esista. Eppure Alaa al-Najjar, questo è il nome della donna, dice di non essere «arabbiata, provo dolore ma non rabbia». Si è affidata ad Allah, è certa che tutto rientra in un «disegno più grande» che ci sfugge e, dice con forza, «sono triste per quelle persone senza umanità che accettano tutto questo male». Non riesce a provare odio, ha spiegato, ha chiesto giustizia ma a Dio. Non ha detto la parola “perdono”, ma c’è tra le righe: è una luce che le permette di non essere sopraffatta dal male intorno a lei e di coltivare un briciolo di speranza per il futuro.
Le due opposte vicende ci interrogano su come elaboriamo il male che minaccia la nostra vita, che ci spinge a coltivare sentimenti di odio e di vendetta. Essere insidiati dal male fa parte del nostro vivere, tocca a noi però scegliere come affrontarlo. Saper leggere i sentimenti e le reazioni che abitano il nostro cuore, per non esserne schiavi. Saper chiedere aiuto se necessario. E sapersi affidare a Dio, «giusto giudice», con fede, che significa rinunciare a farci giustizia con le nostre mani. Il perdono e la riconciliazione sono forse la forma più alta di affidamento. Voglio dire lavorare per un futuro migliore, più umano per tutti, spezzando la catena del male che richiama altro male.


di: don Vincenzo Vitale
da: Credere 25/2025


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